Come una poetessa
neo-stilnovista la mia dolce primogenita mi ha raccontato ieri di avere una
specie dei fidanzatino a scuola.
Ora, io ho sempre
detto e sostenuto – e in questa sede lo ribadisco – che il momento in cui le
mie bambine incominceranno a frequentare persone dell’altro sesso in forma di
fidanzati, flirt, partner, mariti, ecc. sarà da me vissuto piuttosto male. Non
sono mai stato geloso di una mia fidanzata, non sono mai stato geloso di mia
moglie, mi riservo però di essere gelosissimo delle mie bambine. Dopo tutto,
uno di qualcosa deve essere pur geloso a questo mondo, no?
Pensare che un
giovanotto, magari vestito da “pirla”, con il volto brufoloso, i capelli a
banana, l’espressione ebete e aduso al consumo di alcoolici e/o stupefacenti in
maniera irresponsabile: insomma pensare ad un tipo così che cerca (o riesce) di
sbaciucchiare, mettere le mani addosso, strusciarsi, su una delle mie bambine
che io ho visto nascere, crescere, alla quale ho cambiato centinaia di
pannolini, per la quale ho rinunciato a qualche decina di ore di sonno, che ho
visto fiorire nel corso degli anni, … insomma tutto questo mi è impossibile da
sostenere.
Tengo pronta la
carabina nell’armadio, sempre oleata e manutenuta, da utilizzarsi all’uopo.
Pensare poi che un giovanotto del tipo sopra descritto possa fare soffrire o
trattare male una delle mie bimbe è per me un pensiero inconcepibile. Tutti
quanti mi dicono che questa è la vita; che la stessa presume anche la sofferenza
delle “pene d’amore”, che anche io quando avevo 16 anni facevo lo stesso, che
non è possibile mettere una fanciulla sotto una campana di vetro, ecc. be’
tutte critiche ragionevoli e a loro modo logiche, ma non mi importa: io rimango
saldamente arroccato all’irrazionalità della mia gelosia. Dopo tutto sono già
sin troppo razionale in tutti gli altri ambiti della mia esistenza.
Però c’è un
“però”… ce n’è sempre uno, purtroppo. L’altra sera la mia meravigliosa
primogenita è venuta da me dicendomi: “Papà, ho una specie di fidanzato. E’ un
bambino che mi guarda sempre. E io guardo sempre lui.” “Ah sì! – rispondo – E
come si chiama?” “ Non lo so: non ci siamo mai parlati. Soltanto guardati. Lui
mi guarda sempre quando entro in mensa a mangiare. E io guardo lui.” “E com’è
fatto? Di che classe è?” “E’ bellissimo papà: è biondo e ha gli occhi azzurri.
Dev’essere di seconda, ma non lo so di preciso.”
Mentre mi diceva
tutto questo, gli occhi di mia figlia rilucevano e quasi folgoravano, in un
modo che non avevo quasi mai visto. La dolcezza del suo sguardo avrebbe potuto
fare appassire migliaia di tramonti, i suoi occhi denotavano una spontaneità,
una semplicità ed una purezza sconvolgente. Non ce l’ho fatta ad essere geloso:
non ce la faccio, guardandola in faccia, guardando la sua gioia.
E penso alla scena di questi due bambini che entrano in mensa, in mezzo alla
confusione di decine di altri bambini che schiamazzano, scorrazzano, si siedono
a tavola, litigano per qualche futilità. E in mezzo a questo “girone dantesco”,
due occhi castani che cercano due occhi azzurri. Due sguardi che si incrociano,
un sorriso appena abbozzato, forse una manina che si alza in un cenno di
saluto. Ma poi, maledizione, c’è sempre la timidezza di mezzo, che ti impedisce
di fare il primo passo, di avvicinarti e chiedere almeno il nome. Forse anche
la disciplina scolastica che te lo impedisce, che non ti permette di sederti
vicino al tuo “cavaliere” o alla tua “dama” per mangiare insieme – oh! Durezza
delle regole!
Magari tra
quindici giorni quegli occhi non si incroceranno mai più, non si cercheranno
più, ma almeno rimarrebbe il dolce ricordo del nome di colui o colei che per
primo ti ha fatto palpitare un po’ il cuore. Già: maledetta timidezza che non
ti lascia nemmeno quando sei più grande, quando sei già uomo o donna e che ti
tiene sempre compagnia quando sei in mezzo a decine e centinaia di persone e
che non ti lascia assaporare e cogliere le occasioni che questa vita avara ti
riserva.
Sembra proprio
qualcosa di respiro stilnovistico. I poeti stilnovisti celebravano l’amore per
la “donna angelicata”, una figura eterea, idealizzata, di cui talvolta non si
conosceva l’aspetto, che non si era mai vista, di cui talvolta sfuggiva anche
il nome. Ma che era il veicolo della sublimazione del sentimento amoroso verso
dei lidi di purezza e di nobiltà insospettabili ed inimmaginabili. La stessa
cosa, o quasi, qui, nel XXI secolo, in una mensa di una scuola pubblica del
Nord Italia. Non sono un cavaliere con la sua “dama d’oriente” i protagonisti,
ma due bambini come tanti altri, forse troppo prosaici per avere una poesia
dedicata tutta per loro. Ecco perché mi sono sentito in dovere di scrivere
queste righe, a celebrazione e perenne memoria di questo “amore”.
“Eppure, dell'unico amore terreno della mia vita non avevo saputo mai, né seppi mai: il nome...” (Umberto Eco – Il Nome della Rosa)
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