martedì 5 febbraio 2013

Pensieri di un poeta-guerriero


Come una poetessa neo-stilnovista la mia dolce primogenita mi ha raccontato ieri di avere una specie dei fidanzatino a scuola.
Ora, io ho sempre detto e sostenuto – e in questa sede lo ribadisco – che il momento in cui le mie bambine incominceranno a frequentare persone dell’altro sesso in forma di fidanzati, flirt, partner, mariti, ecc. sarà da me vissuto piuttosto male. Non sono mai stato geloso di una mia fidanzata, non sono mai stato geloso di mia moglie, mi riservo però di essere gelosissimo delle mie bambine. Dopo tutto, uno di qualcosa deve essere pur geloso a questo mondo, no?
Pensare che un giovanotto, magari vestito da “pirla”, con il volto brufoloso, i capelli a banana, l’espressione ebete e aduso al consumo di alcoolici e/o stupefacenti in maniera irresponsabile: insomma pensare ad un tipo così che cerca (o riesce) di sbaciucchiare, mettere le mani addosso, strusciarsi, su una delle mie bambine che io ho visto nascere, crescere, alla quale ho cambiato centinaia di pannolini, per la quale ho rinunciato a qualche decina di ore di sonno, che ho visto fiorire nel corso degli anni, … insomma tutto questo mi è impossibile da sostenere.
Tengo pronta la carabina nell’armadio, sempre oleata e manutenuta, da utilizzarsi all’uopo. Pensare poi che un giovanotto del tipo sopra descritto possa fare soffrire o trattare male una delle mie bimbe è per me un pensiero inconcepibile. Tutti quanti mi dicono che questa è la vita; che la stessa presume anche la sofferenza delle “pene d’amore”, che anche io quando avevo 16 anni facevo lo stesso, che non è possibile mettere una fanciulla sotto una campana di vetro, ecc. be’ tutte critiche ragionevoli e a loro modo logiche, ma non mi importa: io rimango saldamente arroccato all’irrazionalità della mia gelosia. Dopo tutto sono già sin troppo razionale in tutti gli altri ambiti della mia esistenza.

Però c’è un “però”… ce n’è sempre uno, purtroppo. L’altra sera la mia meravigliosa primogenita è venuta da me dicendomi: “Papà, ho una specie di fidanzato. E’ un bambino che mi guarda sempre. E io guardo sempre lui.” “Ah sì! – rispondo – E come si chiama?” “ Non lo so: non ci siamo mai parlati. Soltanto guardati. Lui mi guarda sempre quando entro in mensa a mangiare. E io guardo lui.” “E com’è fatto? Di che classe è?” “E’ bellissimo papà: è biondo e ha gli occhi azzurri. Dev’essere di seconda, ma non lo so di preciso.”
Mentre mi diceva tutto questo, gli occhi di mia figlia rilucevano e quasi folgoravano, in un modo che non avevo quasi mai visto. La dolcezza del suo sguardo avrebbe potuto fare appassire migliaia di tramonti, i suoi occhi denotavano una spontaneità, una semplicità ed una purezza sconvolgente. Non ce l’ho fatta ad essere geloso: non ce la faccio, guardandola in faccia, guardando la sua gioia.
E penso alla scena di questi due bambini che entrano in mensa, in mezzo alla confusione di decine di altri bambini che schiamazzano, scorrazzano, si siedono a tavola, litigano per qualche futilità. E in mezzo a questo “girone dantesco”, due occhi castani che cercano due occhi azzurri. Due sguardi che si incrociano, un sorriso appena abbozzato, forse una manina che si alza in un cenno di saluto. Ma poi, maledizione, c’è sempre la timidezza di mezzo, che ti impedisce di fare il primo passo, di avvicinarti e chiedere almeno il nome. Forse anche la disciplina scolastica che te lo impedisce, che non ti permette di sederti vicino al tuo “cavaliere” o alla tua “dama” per mangiare insieme – oh! Durezza delle regole!

Magari tra quindici giorni quegli occhi non si incroceranno mai più, non si cercheranno più, ma almeno rimarrebbe il dolce ricordo del nome di colui o colei che per primo ti ha fatto palpitare un po’ il cuore. Già: maledetta timidezza che non ti lascia nemmeno quando sei più grande, quando sei già uomo o donna e che ti tiene sempre compagnia quando sei in mezzo a decine e centinaia di persone e che non ti lascia assaporare e cogliere le occasioni che questa vita avara ti riserva.
Sembra proprio qualcosa di respiro stilnovistico. I poeti stilnovisti celebravano l’amore per la “donna angelicata”, una figura eterea, idealizzata, di cui talvolta non si conosceva l’aspetto, che non si era mai vista, di cui talvolta sfuggiva anche il nome. Ma che era il veicolo della sublimazione del sentimento amoroso verso dei lidi di purezza e di nobiltà insospettabili ed inimmaginabili. La stessa cosa, o quasi, qui, nel XXI secolo, in una mensa di una scuola pubblica del Nord Italia. Non sono un cavaliere con la sua “dama d’oriente” i protagonisti, ma due bambini come tanti altri, forse troppo prosaici per avere una poesia dedicata tutta per loro. Ecco perché mi sono sentito in dovere di scrivere queste righe, a celebrazione e perenne memoria di questo “amore”.

“Eppure, dell'unico amore terreno della mia vita non avevo saputo mai, né seppi mai: il nome...” (Umberto Eco – Il Nome della Rosa)

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