giovedì 12 settembre 2013

A sort of homecoming of a homeland's son

Da pochi giorni ero tornato in caserma dalla missione in Inghilterra, distaccato presso il XXIX reggimento logistico aviotrasportato, caserma Duke of Gloucester, Cirencester, Coswold (UK).
Erano stati giorni divertentissimi ma intensissimi e sfiancanti. Esercitazione “Lion Sword”, in pratica un addestramento per posti comando in situazioni operative reali e multinazionali. In pratica era una delle tante “prove generali” per la seconda guerra del golfo che sarebbe arrivata da lì a qualche anno. Era maggio 1997. 

Tornato in caserma a pochi giorni dal congedo, mi restavano soltanto un paio di giorni di licenza “breve”. Mandai comunque un nullaosta firmato dal mio capo-ufficio (un tenente colonnello superiore in grado al mio comandante di battaglione) per una licenza di 3 giorni + 1 giorno di viaggio. Totale 4 giorni. Non avevo nessuna voglia di farmi 6 o 7 ore di treno per restare a casa poche ore. E per poi tornare in caserma dopo altre 5 o 6 ore di treno. Ne avevo fatti abbastanza di questi “tour de force”. Portai il nullaosta al furiere, tra l’altro un “rospo” di qualche scaglione appena arrivato al corpo, consigliandogli di fare preparare il foglio di licenza senza fare troppi “conti”.
E dopo tutto, dopo 3 settimane di esercitazione, tra l’altro in compagnia dei parà inglesi, insomma qualche giorno in più di licenza me li meritavo: avevo passato le ultime settimane con turni di servizio di 12 ore al giorno, contando soltanto un pomeriggio “off” durante il quale avevo preso un pullman ed ero andato a farmi un giretto “in città” insieme al mio collega caporale di Perego (Lecco). Insomma: malgrado i miei 26 anni ero stanco morto. E sentivo dentro di me che non stavo rubando niente a nessuno …
Così partii in licenza in treno, cominciando a portare a casa un po’ di roba che avevo nell’armadietto, in vista del congedo. Arrivato a casa trovai i miei genitori in partenza per la China; sarebbero stati via qualche settimana in viaggio turistico e quindi si sarebbero “persi” il mio ritorno a casa. Vabbè, cercai di trarre il meglio dalla situazione e mi capitò di pensare che, a quel punto, potevo prendere in prestito la macchina di mia madre per tornare in caserma e quindi con quella tornare a casa in congedo dritto filato, senza dovere aspettare treni, coincidenze, metropolitane, ecc. ecc. Dopo tutto a loro non serviva, per mio fratello che era a casa c’era l’auto di mio padre, quindi: permesso accordato. Mi diedero il “contentino” forse anche per farsi perdonare la prevista assenza il “gran” giorno del mio ritorno.
Tornai quindi in caserma con una Fiat Uno 45 Fire, bianca, da “terrorista” – quella macchina che era già appartenuta a mio nonno e dotata di quel famoso impianto frenante che una volta mi aveva piantato in asso mentre scendevo dal passo Re de Bus (Trentino)…
Passai gli ultimi due o tre giorni di caserma cercando di tenermi occupato. Mi recai addirittura regolarmente in ufficio, con grande stupore del mio capo-ufficio che oramai si era rassegnato a dovere fare a meno di me. Un pomeriggio (o una mattina) portarono me e gli altri congedanti a fare il terzo ed ultimo richiamo dei vaccini militari al Centro Anti Tumori di Aviano (Pordenone). Mi sono sempre chiesto perché ci avessero portato lì e non in una struttura militare (che non mancavano certo). E mi sono sempre chiesto perché, contestualmente al vaccino, ci fecero anche un prelievo di sangue. Misteri della “naja potente”, della naja “potentissima”…
Il giorno prima del mio congedo erano già partiti alcuni dei miei “fra”. Avevamo ascoltato assieme il silenzio fuori ordinanza e ci eravamo giustamente commossi abbracciandoci, quella (pen-)ultima notte.
Finalmente arrivò anche il giorno per me: guardai l’alba. Scattai l’ultima foto del rullino e del mio servizio di leva al sole che sorgeva sulla caserma e sui due soldati in giro per il piazzale di pattuglia. Mi ricordo il sole di quella mattina che, malgrado il grigiore della caserma e del Friuli in generale, spandeva una luce calda, tra il giallo e l’arancione, con un sole che spingeva i suoi raggi tra le rade nuvole, raggi che arrivavano a lambire i muri della caserma, la palazzina comando e che poi entravano prepotentemente e finalmente su tutta la piazza d’armi e sulla palazzina alloggi truppa. Era un venerdì: il 20 giugno 1997. Mi risuonava in testa la canzone degli alpini “Monte Nero”, un po’ per assonanza di date.
Per me era una sensazione un po’ strana: un sollievo per avere compiuto fino in fondo il mio dovere di cittadino, di giovane italiano, di soldato ma anche una tristezza, una malinconia per l’abbandono di un mondo nel quale mi ero, tutto sommato, trovato abbastanza bene e nel quale, tutto sommato, avevo imparato a “navigare bene”. Non avevo quindi l’entusiasmo e la sfrenatezza liberatoria dei miei “fra”. Loro erano raggianti, esuberanti, cantavano a squarciagola dalla gioia le canzoni dei congedanti. Avrebbero fatto un casino della madonna sul treno del loro ritorno a casa. Per me era leggermente diverso. Io, tutto sommato, stavo bene dov’ero; e me ne sarei accorto sempre di più nel corso degli anni.
Presi la mia roba – tra l’altro ero riuscito a “imboscarmi” quasi tutto il mio corredo. Avevo “lasciato giù” soltanto gli zaini (che comunque non erano un granché), il cinturone di poliestere (ma avevo comunque in borsa il cinturone di tela e ottone!) e l’impermeabile dell’alta uniforme (peccato: era un capo decisamente comodo e versatile, che mi sarebbe piaciuto tenere) – ritirai il foglio di congedo ed il diploma, caricai il baule della Uno e partii. Ricordo che feci tutta una tirata da Pordenone fino a Milano senza neppure fermarmi a bere un caffè. A dire il vero ricordo solo questo di quel viaggio; e forse un altro elemento: lungo l’autostrada, tra Verona e Brescia mi pare, sorpassai un pullman di militari. Uno di loro guardò il tubo tricolore (il tipico tubo portadocumenti dove avevo arrotolato il foglio di congedo) ed il fazzoletto tricolore da congedante che facevano “bella mostra” sul vano portaoggetti sotto al parabrezza della mia auto. Il suo sguardo, due occhi azzurri malinconici sotto ad una capigliatura castana, denotò invidia, stupore e malinconia nel vedere quei due oggetti tanto “sacri” per i militari di leva. I nostri sguardi si incrociarono e nella mia testa ronzò un pensiero: “se vuoi fare cambio, vecchio mio, quando vuoi – anche adesso, qui, sull’autostrada”.
Non dovetti nemmeno fermarmi a fare rifornimento perché avevo già fatto il pieno prima di partire. Così arrivai a casa in poco più di tre ore, considerato il traffico di una mattinata feriale. Giunsi a casa, parcheggiai la macchina nel garage. Quindi salii in casa, aprii la porta (avevo con me le mie chiavi) ed entrai. Non dissi nulla. Entrai in silenzio cercando di non fare troppo rumore, non so per quale motivo, poi…  Forse perché stavo rientrando in una vita “diversa”, a suo modo “nuova”, quella da civile, e volevo farlo “in punta di piedi”. Però dal fondo del corridoio si aprì la porta della camera di mio fratello, che evidentemente aveva sentito la pesante porta blindata. Mi comparve davanti ancora in pigiama, benché fosse già mezzogiorno e mezzo, più o meno. Mi guardò senza denotare particolari sentimenti e mi disse: “Ah! Sei qui? Hai fame? In frigo c’è del prosciutto; poi c’è un sacchetto di patatine nell’armadio”. Tornò in camera sua e richiuse la porta.
A quel punto aprii la bocca per mormorare un frase del tipo: “Be’: sono tornato!”. Poi ripiombai nel silenzio e portai le mie borse in camera mia. Trovai sulla mia scrivania una cartolina di mia madre con raffigurato un fiore: sul retro l’impronta delle sue labbra e la scritta “Ben tornato”. Trovai anche un biglietto di mio padre che mi diceva di presentarmi lunedì mattina al mio nuovo posto di lavoro. Pensai: ‘neanche una settimana per riprendere fiato e riabituarmi alla vita “civile”’… Andai in cucina a mangiare (da solo) prosciutto cotto (di cui non vado pazzo) e patatine, riflettendo sul fatto che, a quell’ora, se fossi stato ancora in caserma avrei mangiato sicuramente meglio ed in compagnia di qualche commilitone…
Non ne ho mai fatto una colpa a mio fratello. Benché lui abbia prestato servizio militare prima di me e, quando tornò a casa in congedo ebbe tutt’altra accoglienza rispetto a quanto fu riservato al sottoscritto, lui semplicemente è fatto così: lo è sempre stato. Pochissimo espansivo, molto conciso nelle sue espressioni e molto pragmatico nei suoi modi. Ero tornato a casa, stavo bene, c’era del cibo per me. Tanto bastava per la mia sopravvivenza. Forse io lo apprezzo (e nel corso degli anni lo apprezzo sempre di più) proprio per questo suo atteggiamento freddo, distaccato, quasi algido.
Finito di mangiare, sistemai la cucina, tornai in camera mia e cominciai con calma a sistemare le mie cose. Feci partire la lavatrice con il mio bucato ed infine mi sedetti sul balconcino a godermi il sole di giugno fumando una sigaretta. Aspettai per tutto il pomeriggio la telefonata della mia fidanzata di allora che non arrivò mai. E non arrivò per tutto il fine settimana. Decisi di non chiamarla io intenzionalmente, anche per evitare i soliti fastidi che causava a casa sua ogni mia telefonata. E principalmente per vedere se avesse trovato modo o voglia di farmi un colpo di telefono. Ma non arrivò nulla ed il telefono rimase muto.
Il giorno dopo, sabato, mi recai a quello che sarebbe diventato il mio posto di lavoro per “sperimentare” ed imparare la strada che avrei dovuto fare. Si trattava di arrivare quasi fino a Lecco, 46 kilometri, quindi non una cosa da niente. Domenica cercai di riposare il più possibile malgrado avessi ancora addosso il “ritmo caserma” che mi imponeva di svegliarmi alle 6:30 anche di domenica.

Controllai un paio di volte la segreteria telefonica del telefono di casa, senza però trovare il messaggio che mi sarebbe piaciuto trovarci. Feci anche un paio di passeggiate in giro per il paese per trovare gli amici.

Lunedì mattina andai al lavoro e tornai a casa a sera. Il giorno dopo, al mattino, andai al Comune a fare firmare il mio congedo dal Sindaco (o dal suo delegato). E fu così che la mia esperienza militare ebbe termine anche dal punto di vista burocratico. Era finita. 

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